Prima o poi arriva il dolore. Il dolore ha una fase di latenza. Tra quando lo si prova e quando si riesce a farlo uscire c’è un tempo in mezzo. Noi sappiamo di non dover avere fretta, di non dovere spingere. Anche perché le donne in quel momento stanno camminando su una fune molto sottile, facendo di tutto per non cadere giù e sparire di nuovo.
Raccontare storie di violenza è difficile. E soprattutto lo è raccontare una sola storia. Perché ci si trova a fare i conti con qualcosa di troppo intimo e privato. Di troppo doloroso per chi ci si riconosce, perché quella storia l’ha vissuta in prima persona. Per questo motivo abbiamo scelto di raccontare non una storia, ma pezzi di più storie. Condividere le proprie sofferenze con altre non risolve il problema, certo. Ma di sicuro aiuta a non sentirsi soli. A capire che c’è un mondo fuori. E in quel mondo ci sono persone che possono aiutarci.
Quando al Centro antiviolenza arriva una donna, sappiamo che la prima cosa che le dobbiamo è il silenzio. Ci sediamo in una delle due stanze che abbiamo a disposizione e aspettiamo. A volte nel giro di pochissimo franano giù centinaia di parole, a volte ne esce una alla volta e ci accorgiamo della fatica immensa che costa lo spingerle fuori. “Lo devo ringraziare, perché mi ha lasciata viva”. Pensieri. Frammenti di memoria. Che hanno un potere detonante immenso. Embrioni di onde d’urto che possono spazzare via tutto. Se non assorbite, attutite. Se non indirizzate nel verso giusto.
“Mi sono ritrovata tra il letto e l’armadio, lo spazio era stretto. Ha cominciato a picchiarmi con la mano senza coltello, io ho cominciato a usare le mie. Mi ha preso il collo. Io guardavo il coltello, su per aria. Il collo è diventato sempre più stretto, l’aria ha cominciato a non passare più. Ho visto tutto nero. Fine. Finalmente sono morta. Ma mi muovo. Mi arriva una lama di dolore. Un dolore assurdo, nudo. Allora non sono morta. Perché ancora una volta non sono morta?”.
I fotogrammi che ogni donna rivive dentro di sé, diventano protagonisti di una lotta ancestrale tra il ricordo e l’oblio. Ricordare il dolore? Dimenticarlo? Trasformarlo, può essere una risposta. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte, perché lasci fiorire qualcosa.
Però c’è lui. “Non mi provocare mai, io sono in guerra, abbi sempre paura”. E questo clima da battaglia perenne è una delle prove più dure. È un mostro che non dorme mai e sai che è lì. Accanto a te. Un conflitto sempre pronto a esplodere. “Io lo capisco. Lo capisce anche mio figlio. Lo capisco dai suoi occhi che cambiano che sta per esplodere la rabbia. Allora posso solo cercare di diventare impercettibile, trasparente”.
Le storie di violenza sono tante e diverse. Ma tutte collegate da un unico comune denominatore: l’odio immotivato unito a un malsano e distorto senso di possesso. È un clima che logora, che divora. Parlare. Parlarne. Fosse facile.
“Le donne hanno più confidenza col dolore – scrive Concita De Gregorio nel suo libro, Malamore – è un nemico tanto familiare da essere quasi amico. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece. Ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza”. La forza di non voltarsi indietro quando lui, dopo l’ennesima battaglia domestica chiede l’ennesimo, fasullo perdono. La forza, sull’uscio di casa, di fare un passo avanti e uscire.
La forza di rinascere. E di lasciare, la mattina di un 8 marzo, un messaggio di speranza nella segreteria telefonica del Centro antiviolenza: “Grazie di cuore per quello che avete fatto per me e per noi. Se non ci foste state, la mia esistenza andrebbe ancora avanti come prima. Un abbraccio a voi, che mi avete cambiato la vita”.
Raccontata da Gabriela e Marco